Amedeo VIII


DUCA PACIFICO, PAPA FELICE,
    
   “Servire Deo regnare est”. Si regna per servire Dio. Fu il motto di Amedeo VIII di Savoia, il Pacifico (Ginevra, 1383-1451), vicario del Sacro Romano Imperatore.


Figlio primogenito di Amedeo VII conte di Savoia e di Bona di Berry, nacque nel castello di Chambéry il 4 settembre del 1383.

Successe al padre nel governo dello stato alla sua morte, il 10 novembre 1391; secondo il testamento paterno la reggenza doveva essere affidata non alla madre Bona di Berry, ma all’ava Bona di Borbone assistita da un consiglio di grandi feudatari. Ma sorte voci che Amedeo VII fosse morto di veleno, la corte sabauda divenne teatro di vivaci lotte. Sospetti strani si diffusero sulla vecchia contessa Bona di Borbone ed i suoi fedeli ed il governo fu conteso tra i favorevoli e gli avversari. Bona di Borbone per acquistarsi l’appoggio dell’unico rappresentante maschio della famiglia, Amedeo, principe d’Acaia, rinunciò, a nome del giovane Amedeo  ai diritti di sovranità feudale che Amedeo VI aveva fatto riconoscere al principe alla sua maggiore età.

La crisi si aggravò nel 1393 quando a favore di Bona di Borbone intervennero a nome del re di Francia i duchi reali di Borgogna, di Berry, di Borbone: questi stabilirono che, provvisoriamente, la reggenza dovesse essere tenuta da Thonon dalla vecchia contessa assistita da un consiglio comprendente anche il principe di Acaia, mentre il giovane conte sarebbe rimasto a Chambéry sotto la custodia di Aimone di Aspremont ed il governo di Oddone di Villars, in attesa di celebrare al più presto le nozze con una figlia del duca di Borgogna. In attesa di provvedimenti definitivi, il Consiglio di Chambéry procedette contro i supposti avvelenatori del defunto conte, ma solo lo speziale, reo di aver dato il veleno, fu decapitato e squartato; il medico, Jean de Grandville, invece, si rifugiò presso il duca di Berry, mentre il complice supposto, il barone Oddo di Grandson, fuggiva in Inghilterra

Nell’ottobre del 1393 Amedeo VIII fu condotto, sebbene avesse appena dieci anni, a Chalon in Borgogna per celebrare formalmente il matrimonio con Maria di Borgogna. Ora fu riorganizzato il governo comitale; il conte rimase affidato ai due baroni fedeli, mentre Bona di Borbone rimaneva, ufficialmente almeno, alla testa della reggenza. Presto però si decise che la madre e la nonna del conte abbandoriassero lo stato; questa andò a stabilirsi a Mâcon, quella fu sposata a Bernardo di Armagnac. Nel 1394 in un ambiente più sereno fu rifatto il processo: speziale e medico furono riconosciuti innocenti. Oddo di Grandson si illuse ora di poter ritornare in Savoia, ma vecchi odi risuscitarono; un suo nemico, Gerard d’Estravayer, lo costrinse ad un duello giudiziario in cui Oddo cadde ucciso e la sua morte parve avallare l’accusa di avvelenamento di Amedeo VII.

Lo stato sabaudo rimase ora sotto l’influsso del duca di Borgogna. Amedeo fu fatto maggiorenne nel 1397, ma il governo rimase nelle mani dei suoi devoti tutori. Nel 1398 andò a Dijon a visitare la sposa, poi si recò a Parigi per la solenne presentazione al re. Solo nell’autunno del 1403 Maria di Borgogna fu consegnata allo sposo. Questi ebbe dalla sua unione numerosi figli, dei quali due maschi, di nome Antonio, morirono infanti, mentre una femmina Margherita moriva giovinetta; si susseguirono poi Maria, Amedeo, Ludovico, Bona, Margherita, Filippo. La contessa Maria morì di parto nel 1422.

Il regno di Amedeo coincide con la seconda fase della guerra dei Cento anni. Questa sin quasi al suo meraviglioso scioglimento insperato dopo l’intervento di Giovanna d’Arco fu tanto funesta per la monarchia francese da toglierle la possibilità di continuare nella penetrazione nella penisola italiana, iniziata nell’età precedente, e di questa crisi francese Amedeo seppe trarre il massimo profitto per una politica di espansione così nella pianura padana, come anche nella stessa valle del Rodano, nella quale la monarchia francese aveva già nel secolo XIV conquistato posizioni dominanti. Tuttavia intorno ai domini sabaudi vi erano ancora al principio del sec. XV delle signorie indipendenti che occorreva salvare dalla cupidigia francese.

Amedeo VIII inaugurò la sua attività assorbendo definitivamente la contea del Genevese; l’ultimo di questa dinastia era stato Roberto di Ginevra, il papa avignonese Clemente VII; quando questi morì, il consiglio di Savoia, quale rappresentante del sovrano feudale, assegnò il feudo ai Thoire-Villars e poiché questi scomparvero nel 1400, Amedeo VIII incamerò definitivamente il Genevese. Negli anni seguenti riscattò il feudo di Rumilly, poi vari altri feudi nel Vaud, assumendo poi la protezione dei signori locali contro l’invadenza dei Cantoni svizzeri confederati. Anche Amedeo VIII si trovò di fronte al problema di Saluzzo. Poiché le discussioni giudiziarie nel Parlamento di Parigi non parevano destinate a conclusione, nel 1413, approfittando delle lotte dinastiche francesi, Amedeo ricorse alle armi; assediò Saluzzo e costrinse il marchese a riconoscersi per suo vassallo. Fin che visse Amedeo la questione saluzzese parve risolta. Nelle Alpi marittime, sul versante italiano, ancora si consideravano come indipendenti i Lascaris signori di Tenda e Briga. Il conte di Savoia riuscì ad acquistare i diritti dei vari condomini ed i Lascaris diventarono suoi vassalli. A Nizza il trattato per l’occupazione del 1388 aveva lasciato molte questioni dubbie così con gli Angiò signori di Provenza, come con i Grimaldi di Bueil; trattative abili permisero ad Amedeo VIII di rassodare definitivamente la signoria sabauda su Nizza.

Una spina dolorosa per lo stato sabaudo era l’aspra lotta che le comunità tedesche dell’alto Vallese conducevano contro il predominio che i conti di Savoia avevano conquistato nella bassa Valle, appoggiandosi ai vescovi di Sion. Amedeo cercò di sviluppare nel Vallese un’azione di pacifica penetrazione, sebbene l’elemento tedesco trovasse appoggio nei Visconti di Milano.

Nel 1412 il conte di Savoia riuscì ad avere la dedizione delle comunità di Val d’Ossola, sperando in tal modo di stringere i montanari dell’alto Vallese e obbligarli a sottomettersi: nel 1418 però il possesso di Val d’Ossola veniva ritolto ad A. dall’intervento delle Leghe svizzere.

L’avvenimento più importante del regno di A. fu la riunificazione degli stati sabaudi nel 1418, quando si spense dopo tre generazioni il ramo primogenito dei Savoia-Acaia. Morto il principe Ludovico l’11 dicembre 1418 A. venne appositamente da Thonon a Torino per prendere possesso del feudo, eliminando ogni possibilità di affermazione di rami illegittimi. Lo stato sabaudo formò allora un blocco solo ed ebbe una compattezza che doveva affermarsi nella vita politica italiana. Una conseguenza inevitabile dell’unificazione doveva essere il sopravvento dell’elemento italiano su quello savoiardo e quindi degli interessi italiani su quelli borgognoni nella condotta politica della dinastia. A questo fine miravano anche i rapporti di cordialità e di reciproca fiducia che Amedeo seppe mantenere con l’impero. Appena giunto alla maggiore età il conte di Savoia ebbe cura di chiedere all’imperatore Venceslao la rituale infeudazione. Venceslao non solo concesse al conte quanto chiedeva, ma gli rilasciò una dichiarazione, evidentemente molto desiderata a Chambéry, per cui erano nulli gli atti imposti allo stato sabaudo da principi stranieri (e voleva dire francesi) durante la sua minorità. Dopo la deposizione di Venceslao, A. rimase molto riservato di fronte al successore Roberto di Baviera. Nonostante le sollecitazioni, egli né lo riconobbe, né gli giurò fedeltà. Riprese le relazioni cordiali con il nuovo imperatore lussemburghese Sigismondo; questi nel 1412 gli concesse, con l’investitura della contea, il vicariato imperiale di Lombardia; più tardi, durante il suo soggiorno in Italia, gli confermò la concessione della contea di Asti che un secolo prima l’avo di Sigismondo, Arrigo VII, aveva concesso ad Amedeo V.

Due anni dopo (1416), durante il passaggio per Chambéry, Sigismondo concesse ad Amedeo  il titolo di duca di Savoia, titolo che non era per Amedeo una questione di vano prestigio, ma affermazione di importanza politica. Il regno borgognone-provenzale di Arles di fronte alla invadenza della monarchia francese era ormai del tutto svuotato: Sigismondo, dando al conte di Savoia il titolo di duca, veniva a collocarlo definitivamente nell’orbita imperiale e lo riconosceva come unico rappresentante della tradizione borgognona. Nel 1424, dopo l’annessione dei territori piemontesi, Amedeo creò il principato di Piemonte, affidandolo al primogenito, sì che il titolo di principe di Piemonte fu poi prerogativa del principe ereditario, mentre al secondogenito spettava il titolo di conte del Genevese. Alla unificazione delle diverse tradizioni politiche dei suoi stati Amedeo provvide mediante la legislazione. Dopo aver dato già nel 1403 alcuni statuti generali, altri ne diede nel 1423 per la procedura giudiziaria e poi fece preparare dai suoi giuristi il grande codice del 1430 che aveva lo scopo ben chiaro di ridurre ad unità le molteplici leggi vigenti nei suoi domini, riaffermando il prestigio e l’autorità del sovrano al di sopra dei poteri feudali e comunali, riorganizzando l’amministrazione statale, già centralizzata nel Consiglio ducale nelle sue tre forme di Consiglio deambulatorio, di Consiglio residente a Chambéry e di quello residente a Torino. Tuttavia Amedeo  ebbe l’avvertenza di rispettare le franchige di cui godevano vari paesi, franchige e costumanze immedesimate nella stessa vita sociale del paese.

L’espansione tentata da Amedeo nei territori del vecchio regno di Borgogna-Arles si lega con l’azione politica svolta nelle lotte civili di Francia. Gli stretti legami ch’egli aveva con Bernardo d’Armagnac – suo padrigno perché aveva sposato la madre di Amedeo, Bona di Berry – e con Giovanni Senza Paura – suo cognato – e così quelli che aveva con i duchi di Berry e di Borbone non gli potevano permettere di estraniarsi dalle controversie francesi. D’altra parte con Borgogna, Borbone, Delfinato, Angiò rimanevano ancora motivi di contrasto per questioni territoriali o finanziarie: Amedeo doveva preoccuparsi di salvaguardare gli interessi del suo stato. Di qui il vario atteggiarsi della sua politica francese. Egli doveva seguire una politica di grande prudenza per non lasciarsi trascinare a partecipare all’aspra lotta tra Armagnacchi e Borgognoni per quanto da ambo le parti avesse ripetutamente sollecitazioni, lusinghe, promesse di aiuto, di ricompensa ed anche minacce larvate.

Amedeo cercò di seguire una politica lineare di fredda esecuzione dei trattati. Le situazioni politiche e militari in Francia dal 1410 al 1435 erano sempre oscure; dalle fazioni di guerra alle trattative, alle tregue, alle paci, alle rotture, Amedeo VIII sistematicamente si presentò tra parenti e parenti come mediatore e pacificatore: la pace di Bicètre del 1410 segue il suo arrivo a Parigi, come quella di Auxerre nel 1412 e quella di Arras del 1415. Massima prudenza adottò poi dopo il fatto di Montereau, quando era pericoloso riconoscere il re inglese di Parigi, spiacevole abbandonare il re francese di Bourges, ma imprudente anche riconoscerlo. Predicando pace, proponendo arbitrati, Amedeo teneva dietro alle discussioni dei suoi commissari per risolvere i conflitti di confine con Delfinato, Borbone, Borgogna. Abili trattative prepararono nel 1422 l’occupazione militare delle contee di Valence e Diè, mentre Carlo VI moriva ed il figlio a Bourges era nella immobilità; sventolando bandiera imperiale Amedeo mirava ad aggirare il Delfinato ed a legare Chambéry con Nizza lungo il Rodano. Tutti i progetti sabaudi di espansione nella regione rodanica furono colpiti dal risveglio nazionale francese determinato da Giovanna d’Arco. Grande fu l’emozione a Chambéry dopo la liberazione di Orléans e la spedizione a Reims; per un momento Amedeo si chiese se doveva intervenire e gettare la sua efficienza militare dalla parte di Borgogna. Ripetutamente si discusse la questione nel Consiglio ducale, ma sempre prevalse la politica della neutralità.

Dopo la cattura di Giovanna d’Arco il principe di Orange ed il duca di Savoia progettarono l’invasione e la spartizione del Delfinato per mettere Carlo VII di fronte al fatto compiuto. Dell’esecuzione del progetto si incaricò il principe d’Orange, ma la sconfitta subita ad Anthon ebbe ragione di quello che fu l’ultimo tentativo sabaudo per eliminare la monarchia francese dalla regione alpina.

Amedeo si affrettò a ritornare alla tattica degli arbitrati per assicurare al suo stato quella pace che gli era più che mai necessaria. Ma oramai la sua opera non era più desiderata. Alle trattative di pace a Nevers del gennaio 1435 il duca di Savoia non pare sia intervenuto e neppure poi a quelle di Arras dove la pace tra Carlo VII ed il duca di Borgogna fu proclamata sotto la direzione dei rappresentanti del papa (settembre 1435). Alla corte di Savoia la pace di Francia fu considerata come cosa funestissima. La situazione ora si era fatta completamente avversa.

Le guerre di Francia e la sua azione pacificatrice in quel settore permisero invece ad Amedeo di svolgere una politica di grande importanza in Italia sfruttando i conflitti tra il duca di Milano Filippo Maria e le grandi repubbliche di Venezia e di Firenze. Già subito dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti nel 1402 si ebbe un’alleanza tra Amedeo e Teodoro Paleologo marchese di Monferrato per un’azione concorde contro il nuovo duca Giovanni Maria Visconti. Di qui derivò l’espansione sabauda nell’alto Vercellese, mentre il marchese Teodoro occupava Vercelli (1404-07). Di fronte all’opera di ricostruzione del ducato milanese per la quale il duca di Milano poteva disporre di milizie agguerrite e di valenti capitani, Amedeo rimase silenzioso; ma quando il Visconti con la sua audace penetrazione in Romagna determinò l’ostilità aperta dei Fiorentini e poi la coalizione veneto-fiorentina, il duca di Savoia intervenne energicamente non potendo permettere nè il trionfo del duca di Milano nè la sua rovina e la occupazione della Lombardia da parte dei Veneziani. Entrò perciò nella lega antimilanese facendosi riconoscere come sua sfera d’influenza la Lombardia occidentale sino all’Adda; poi trattò con Filippo Maria offrendogli la sua neutralità benevola a condizione di avere la cessione della città di Vercelli e della linea della Sesia. Per legare meglio il duca, e patentemente, più di quanto in realtà fosse, gli diede in sposa la figlia Maria. Questo atteggiamento di Amedeo salvò Filippo Maria dalla rovina che lo minacciava. Alla pace di Ferrara del 1428 i Veneziani si fecero cedere dal Visconti la città di Brescia che avevano conquistata; alla pace di Ferrara del 1433 ebbero in più Bergamo ed il confine dell’Adda. Il duca di Milano così indebolito territorialmente fu costretto nel 1434 a ricorrere all’alleanza sabauda come garanzia per la sua fortuna ulteriore. In questo periodo 1426-1434 si può dire che la politica sabauda abbia avuto in Italia una importanza capitale, vietando il predominio dell’una o dell’altra parte. Dell’amicizia nuova con il duca di Milano, Amedeo  si servì del 1432 per vincolare a sé con condizioni assai gravi il marchese di Monferrato nel trattato di Thonon, trattato che portò nel 1435 alla cessione ai Savoia da parte del Monferrato dell’importante piazza di Chivasso.

Il duca di Savoia aveva però ambizioni assai maggiori, come prova il fatto del matrimonid tra la figlia Margherita e Luigi III d’Angiò, erede presunto della regina di Napoli Giovanna Il; la morte improvvisa del duca angioino a Cosenza nel 1434 e quella della regina nel febbraio seguente fecero fallire le ambizioni del duca di Savoia in questo settore. Appunto nel 1434 il duca di Savoia, che aveva appena varcato i cinquant’anni, in conseguenza di una profonda crisi spirituale decise di abbandonare la vita attiva, per ritirarsi a vita eremitica, insieme con alcuni suoi intimi consiglieri ed amici.

La morte della consorte prima, poi quella del suo primogenito Amedeo, morto quasi improvvisamente nell’agosto del 1431, influirono su quelle che già parevano vecchie tendenze del suo spirito. Creò, in armonia con queste sue aspirazioni spirituali e con le esigenze dello stato, un ordine religioso-cavalleresco di San Maurizio; elesse come residenza sua e dei suoi confratelli il castello di Ripaglia sul lago di Ginevra, non lungi da Thonon, che gli ricordava la morte del padre e della consorte. Il 16 ottobre 1434 entrò nella sua nuova residenza lasciando il governo dello stato, poiché gli era morto nel 1431 il primogenito Amedeo, al figlio secondogenito Ludovico che ebbe l’ufficio di luogotenente generale ed il titolo di principe di Piemonte, come già il fratello primogenito. Amedeo intendeva da Ripaglia seguire le faccende dello stato, le trattative diplomatiche, lasciando al luogotenente ed ai suoi consiglieri l’esecuzione delle sue direttive.

L’abbandono del mondo da parte di un principe così potente e così apprezzato per la sua saggezza nelle corti e nei consigli d’Europa colpi assai i contemporanei sebbene altri casi consimili già si fossero Verificati. A lui corse il pensiero dei Padri del concilio di Basilea quando nel 1438 il loro dissidio con il papa di Roma diventò aspro ed il concilio si avviò sulla via della lotta aperta. Nel giugno del 1439, poi, la deposizione di Eugenio IV fece sorgere a Basilea il problema di scegliere una persona degna e capace di salire al seggio papale. L’eremita principe di Ripaglia suocero del duca di Milano, zio del duca di Borgogna, imparentato con varie case principesche di Francia e di Germania, parve ai Padri di Basilea l’uomo adatto per le loro esigenze teoriche e pratiche. La candidatura di Amedeo fece rapida strada ed il 5 novembre  1439 fu eletto papa.

Il duca di Savoia accettò dopo lunga esitazione. Il 6 gennaio 1440 rinunziò definitivamente alla dignità ducale a favore del figlio Ludovico e scelse come nome Felice V. A Thonon ora ricevette gli ordini minori, ma solo il 24 giugno entrò in Basilea. Qui ricevette gli ordini sacri superiori ed il 26 giugno celebrò la prima messa. Il 24 luglio successivo fu consacrato ed incoronato papa. Così dopo vent’annì la Chiesa entrava in un nuovo scisma. Però Felice V fu riconosciuto solo nei suoi stati ed in pochi stati di Germania. Il re di Francia Carlo VII e l’imperatore Federico III rimasero esitanti in attesa di quel che potesse succedere ed anche il genero di Amedeo, Filippo Maria Visconti, se prima parve favorevole, poi si mostrò diffidente per le esigenze della sua politica.

Felice V si industriò di procurarsi l’appoggio di capitani di ventura italiani per espellere Eugenio IV ed impadronirsi di Roma, ma i tentativi fallirono. E neppure riuscì il tentativo di impadronirsi nel 1443 di Avignone; il tumulto dei suoi aderenti non riuscì. Già nel 1445 Felice V incominciò a cercare la via per uscire dal ginepraio in cui si era cacciato così imprudentemente, forse solo con l’illusione di essere utile al suo stato. Questo pareva invece destinato ad essere la vittima delle monarchie europee ora fattesi apertamente sostenitrici del papa di Roma. La mediazione del re di Francia fece raggiungere finalmente nel 1449 un accordo tra Felice V ed il nuovo papa di Roma, Niccolò Parentucelli.

Felice V il 5apr. 1449 dichiarò che ritirava le condanne lanciate contro i suoi avversari; così fece per conto suo Niccolò V. Il 7 apr. 1449 Felice V abdicò solennemente ed il 18 giugno Niccolò V lo riconobbe cardinale del titolo di Santa Sabina, legato e vicario apostolico nei paesi della sua obbedienza. Anche il concilio di Basilea, ridottosi a poche persone, si sciolse dopo avere formalmente eletto papa Niccolò V.

A., dopo questa lunga parentesi pontificale, fu presto ripreso nelle spire della politica. Essendo nel 1447 morto Filippo Maria Visconti duca di Milano, il duca di Savoia Ludovico si gettò nella lotta per la successione, fidando sulla sorella vedova del Visconti e sul bisogno dei Milanesi di essere aiutati contro Francesco Sforza, il condottiero traditore e contro i Veneziani. L’azione militare del duca Ludovico provocò però una violenta reazione da parte dello Sforza che minacciò gravemente lo stato sabaudo. Amedeo VIII, che aveva cercato di guidare da lontano il figlio con prudenti consigli, nell’agosto del 1449 scese in Piemonte per assistere il duca. Solo nel gennaio del 1450 ritornò a Ginevra. Qui morì il 7 genn. 1451. Fu sepolto non ad Altacomba, come aveva stabilito, ma a Ripaglia. La tomba sua, che era oggetto della venerazione delle popolazioni, fu distrutta dai Bernesi eretici nel 1536;i resti però del grande principe furono salvati, consegnati più tardi ad Emanuele Filiberto, e portati a Torino nel duomo; Carlo Alberto li rinchiuse nel grande monumento erettogli nella Cappella della Sindone.

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