Il Duca Invitto, il Savoia generale che non fu mai sconfitto nella Grande Guerra

di ANDREA CIONCI dal quotidiano La Stampa

A 150 anni dalla nascita, il ritratto di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. Il nipote: “Fu lui a sospendere i tribunali d’emergenza che giudicavano i sospetti disertori in trincea”

Il monumento al Duca d’Aosta a Torino

La tesa dell’elmetto Adrian proietta la sua ombra su un volto fine e signorile che contrasta col panneggio pesante e roccioso del pastrano militare. E’ il monumento al duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta di cui quest’anno ricorrono i 150 anni dalla nascita. Sorge in piazza Castello a Torino e, realizzato dagli scultori Eugenio Baroni e Publio Morbiducci, fu inaugurato nel 1937 insieme ad altre sculture che raffigurano i soldati in quattro momenti topici: in attesa, prima, durante e dopo il compimento del proprio dovere. Cugino primo e coetaneo del re Vittorio Emanuele III, il duca d’Aosta ne costituiva l’antitesi, sia per la figura fisica – era alto e atletico – sia per il temperamento socievole e aperto. È stato uno dei più grandi generali italiani della Grande Guerra, e meritò l’appellativo di “Duca Invitto”, perché la III Armata che lui comandò non conobbe mai la sconfitta. Pur non essendo uno stratega o un tattico di capacità straordinarie, aveva un carisma antico che rese la sua armata una disciplinata e motivata macchina da guerra.

Sempre a un passo dal trono.
Più di una volta nella sua vita, Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta era giunto a sfiorare il trono, e non solo quello d’Italia. Era nato a Genova il 13 gennaio 1869, figlio di Amedeo Ferdinando, primo duca d’Aosta, e della principessa Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna. Fino alla nascita del principe Umberto, fu il primo erede collaterale alla successione al trono di Vittorio Emanuele III. Quando il padre Amedeo, pur riluttante, accettò la corona di Spagna, fra il 1871 e il ’73, Emanuele Filiberto – in qualità di principe delle Asturie – fu anche Infante, ovvero erede al trono di Spagna. Tuttavia, l’esperienza straniera durò poco: la chiesa, la nobiltà e la politica iberiche, con un accanito ostruzionismo, indussero il nuovo sovrano, disgustato, ad abdicare e a tornare in Italia per riassumere il titolo di duca di Aosta.

Carriera folgorante
Come spesso succedeva per gli appartenenti ai rami cadetti, ad Emanuele Filiberto toccò intraprendere il mestiere delle armi: ebbe come precettore il maggiore Giuseppe Perrucchetti, insigne geografo militare e futuro fondatore del Corpo degli Alpini. La carriera fu rapidissima: a 25 anni era già colonnello. Spiega lo storico Giovanni Cecini: «Divenne quindi comandante del 5° reggimento artiglieria da campagna, di stanza a Venaria Reale. Poiché due batterie di quel reggimento vennero scelte per supportare la spedizione in Eritrea, nel febbraio del 1896 il duca d’Aosta chiese di poter essere inviato in Africa orientale. L’intercorsa disfatta di Adua silenziò gli ardori bellicosi del giovane colonnello».

Nel frattempo, dopo un fidanzamento lampo, aveva sposato Hélène Borbone-Orléans – potenziale principessa di Francia – che si distinguerà prima come crocerossina e poi come ispettrice nazionale delle Infermiere volontarie. Dal matrimonio sarebbero nati Amedeo e Aimone, 3° e 4° duca d’Aosta, altrettanti possibili pretendenti al trono sabaudo, qualora Vittorio Emanuele – e poi Umberto, suo figlio – non avessero avuto discendenza maschile.

Una testimonianza diretta
Il duca Amedeo di Savoia-Aosta, nipote diretto del Duca Invitto (e dunque Sua Altezza Reale), ha voluto condividere con La Stampa alcuni ricordi familiari: «Per quanto non abbia avuto modo di conoscerlo direttamente, nella nostra famiglia – da sempre fortemente unita – si è tramandato molto della sua memoria grazie soprattutto ai racconti di mia nonna. Anche lei si trovava al fronte: durante la Grande guerra aveva fondato gli ospedali di prima linea che raccoglievano i feriti a ridosso delle trincee (una soluzione decisamente all’avanguardia). Erano una coppia molto unita: pur al fronte, si incontravano abbastanza spesso, trascorrevano una serata insieme e si consigliavano a vicenda sulle più urgenti questioni militari. Si raccontava anche di come mio nonno, durante una delle tante ispezioni in prima linea, dopo Caporetto, si accorse di un soldato –probabile disertore – che stava per essere fucilato. Interruppe l’esecuzione e salvò la vita di quel giovanissimo militare del Sud che, ad appena 20 anni, aveva già cinque figli. Da allora, quei tribunali di emergenza furono sospesi, almeno nella sua armata. Questa sua umanità e il rapporto familiare con i soldati che seguiva pur nel fango delle trincee, traspare anche nei rari filmati che lo ritraggono mentre, ad esempio, concede delle decorazioni. Si vede lui, sorridente e i soldati che gli sorridono a loro volta».

La stima di Cadorna
Scoppiata la Grande Guerra, il duca, ormai generale e all’apice della carriera, pur non avendo potuto partecipare alle campagne di Eritrea e di Libia fu nominato comandante della III armata dal capo di Stato maggiore Luigi Cadorna. Spiega il colonnello Carlo Cadorna, nipote del Generalissimo e coautore con Aldo Mola delle recentissime riedizioni di La guerra alla fronte italiana (Bastogi) e di Caporetto: risponde Cadorna (BcsMedia): «Il duca d’Aosta fu un ottimo comandante e mio nonno lo aveva in grande stima. Al contrario del generale Capello, comandante della II Armata, il duca d’Aosta eseguiva gli ordini del Comando Supremo interpretandoli correttamente. Uomo di grande signorilità e cordialità, manteneva un eccellente rapporto con i propri ufficiali e con la truppa. Subito dopo Caporetto, riuscì a ripiegare con la sua III Armata in modo esemplare, recuperando tutte le artiglierie e fermando l’avanzata austro-tedesca sul Piave, dal mare al Montello, anche aiutato, in questo, dal generale Giuseppe Vaccari. Dalle lettere del duca a Cadorna si evince come lo spirito combattivo fra II e III Armata fosse molto diverso. Lo stesso Aosta sottolineava come la truppa della II, travolta a Caporetto, fosse “marcia” poiché minata dal disfattismo e raccomandava che non avesse contatti con altre armate. Questo è confermato anche da Silvio D’Amico, il grande critico teatrale, che aveva prestato servizio in entrambe. C’è da dire che i soldati della II, a causa delle perdite, per il 30% erano stati rimpiazzati con individui scartati alla prima selezione. Il Governo aveva infatti negato a Cadorna l’arruolamento della classe 1899, che invece concesse a Diaz subito dopo Caporetto».

Il Duca Invitto
Il duca d’Aosta, già nell’agosto 1916, aveva conquistato Gorizia che per molto tempo rimase l’unica vera vittoria del Regio Esercito. Nel ’17 fu vicino a sostituire Cadorna come comandante supremo, ma Vittorio Emanuele III, forse per evitare voci di favoritismo fece cadere la scelta sul generale Armando Diaz, che pure aveva servito sotto lo stesso Emanuele Filiberto. Del resto, se si fosse persa la guerra, il duca d’Aosta avrebbe dovuto assumere la reggenza per il nuovo Re ancora tredicenne, dunque non poteva essere coinvolto in prima persona in un’eventuale catastrofe militare.

Emanuele Filiberto guidò quindi la III armata nelle undici battaglie dell’Isonzo: un vero record. Nonostante le armate fossero state raddoppiate e quindi la III fosse in proporzione più gracile del passato, nella battaglia del Solstizio del giugno del 1918 e in quella successiva di Vittorio Veneto si consacrarono le virtù del duca come autentico trascinatore. Come riportava il bollettino della Vittoria: «Il duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute».

Per i meriti acquisiti durante la Prima guerra mondiale, nel 1926 venne nominato Maresciallo d’Italia (due anni dopo Cadorna e Diaz) insieme a Pietro Badoglio, Enrico Caviglia, Gaetano Giardino e Guglielmo Pecori Giraldi. Dal 1927 al 1929 presiedette l’Opera nazionale del Dopolavoro. Morì a Torino nel 1931 ad appena 62 anni e per sua stessa volontà, riposa oggi in un gigantesco sarcofago insieme ai suoi soldati: «Desidero che la mia tomba sia, se possibile, nel Cimitero di Redipuglia in mezzo agli Eroi della Terza Armata. Sarò con essi vigile e sicura scolta alla frontiere d’Italia al cospetto di quel Carso che vide epiche gesta ed innumeri sacrifici, vicino a quel Mare che accolse le Salme dei Marinai d’Italia».

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